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Concerto per pianoforte e orchestra in sol min. op. 15 di Giovanni Sgambati con Roberto Giordano Numero di catalogo discografico BDI 253, La Bottega Discantica, Milano 2012 Descrizione: Nel CD il Concerto per pianoforte e orchestra in sol minore op. 15 di Giovanni Sgambati, Antiche Danze e Arie per liuto (sec. XVI-XVII) nella trascrizione per pianoforte di Ottorino Respighi e trascrizioni di Giuseppe Martucci e dello stesso Sgmbati da composizioni di Giovanni Battista Martini, Arcangelo Corelli e Cristoph Widibald Gluck. “Quando la musica sinfonica in Italia avrà una storia, bisognerà riconoscere come suo vero fondatore Giovanni Sgambati”. Questo scriveva nel 1906 Eugène d'Harcourt in La musique actuelle en Italie, riconoscendo al compositore romano quel ruolo di capofila che una tradizione dai diversi esiti avrebbe dovuto assicurargli. Il cammino della produzione sinfonica (e più in generale strumentale) fu poi, come noto, tutt'altro che prolifico nel nostro paese, “minato” da quello che Fausto Torrefranca felicemente definì 'morbus melodrammaticus' e cioè da quella incredibile stagione di successi operistici che, specie nell'Ottocento, avevano finito per offuscare una tradizione strumentale in realtà antichissima e altrettanto gloriosa. Non va dimenticato, però, come in questo contesto, certamente all'ombra del melodramma (contemporaneo o di repertorio), si muovessero sparuti e coraggiosissimi tentativi, con l'obiettivo di sprovincializzare il panorama strumentale nazionale e fondare quella musica “italo-moderna” cui aspirerà Casella con i compositori della “generazione dell'Ottanta”. Prima di costoro si colloca, però, Giovanni Sgambati (1841-1914), non solo per il suo lavoro di compositore (al suo nome potremmo associare almeno quelli di Giuseppe Martucci e di Marco Enrico Bossi), ma anche per una parallela attività di organizzatore e promotore della tradizione strumentale, in primis tedesca, che ne fece uno dei punti di riferimento della vita musicale romana di fine Ottocento. Docente dell'Accademia di Santa Cecilia dal 1868 e fondatore dell'omonimo liceo musicale (1877), Sgambati affiancò all'attività didattica quella di brillante pianista (fu concertista di fama europea) e compositore. Legato a Liszt (dopo esserne stato allievo, aprì la sua celebre dimora di Piazza di Spagna, frequentata anche da Debussy e Grieg, alla “Scuola romana” del compositore ungherese) e a Wagner (che ne raccomandò i Quintetti all'editore Schott), Sgambati, da molti etichettato come “il Brahms italiano”, fu figura di respiro europeo. In questa direzione va anche la sua militanza nella Società romana del Quartetto (da lui fondata nel 1867) e in quello che poi diverrà, con decreto regio del 1893, il “Quintetto della Regina Margherita”, formazione cameristica “ufficiale” di casa Savoia, beneficiaria della cultura e degli interessi musicali della sovrana. A lui si devono anche numerose “prime” romane: di opere lisztiane (Christus, Dante Symphonie, Les Préludes), ma anche – assai tardivamente – della Terza Sinfonia di Beethoven; tappe fondamentali della sua attività di divulgatore oltre che di finissimo esecutore, citato, oltre che recensito, da Gabriele D'Annunzio come figura di spicco di un ambiente raffinato e coltissimo, di forte suggestione letteraria (Il trionfo della morte). Coerentemente con tale indirizzo, il catalogo del compositore evita il genere nazionale del melodramma, declinando addirittura l'invito di Wagner a scriverne, e si dedica alla sola musica strumentale, con qualche prova nel campo della musica sacra (Requiem e Te Deum). Centrale è, ovviamente, il ruolo del pianoforte, a cui Sgambati dedica pagine solistiche e cameristiche e il poderoso Concerto in sol minore op. 15, vero e proprio unicum nella pressoché inesistente letteratura “romantica” italiana nel genere. Contemporaneo delle sue due Sinfonie, il Concerto fu composto tra il 1878 e il 1880 e fu spesso eseguito dallo stesso autore. Il primo movimento, di ampio respiro e grande complessità, adotta una struttura piuttosto libera, in cui sezioni diverse si alternano, anche se con richiami tematici e strutturali, con varietà inventiva e inaspettate soluzioni formali. A partire dall'introduzione orchestrale, quasi esitante fino all'ingresso del pianoforte su un disegno di doppie ottave e con piglio preludiante, che solo alla sua seconda ripetizione sfocia nel Maestoso in cui apparirà la prima idea pienamente melodica, tutta pianistica, con brevi interventi a solo di fagotto, violoncello e corno, prima di essere rieseguita dall'intero organico. E' solo un esempio dell'estrema disinvoltura con cui Sgambati sembra affrontare la grande forma, nonostante l'esiguità delle sue prove in tal senso. Una disinvoltura a cui si associa una felice inventiva, che è alla base di diverse singolari soluzioni: dalla varietà degli “interludi” orchestrali (l'appassionato passaggio sui ribattuti di terzine degli archi, il disegno “ostinato” che introduce il Lento su cui si innesta la prima cadenza), all'utilizzo solistico di diversi strumenti, dalla ricchezza della scrittura pianistica (oltre agli echi lisztiani e brahmsiani, non si possono non rintracciare riferimenti a Schumann e, per la vena “fantasque” di certi disegni, a Mendelssohn), alla presenza di due cadenze (entrambe ricondotte senza soluzione di continuità, integrando gradatamente alcuni strumenti, nel tessuto orchestrale), fino alla varietà nella gestione del rapporto solista-orchestra, che passa dal protagonismo “trascendentale” alla più raffinata integrazione (si pensi all'inconsueto episodio sul pedale di fa). In confronto a tale monumentale inizio, la Romanza in mi bemolle maggiore è poco più che un episodio di transizione, non rinunciando, però, a una raffinata ricercatezza. Ai secondi contrabbassi è prescritta la scordatura della quarta corda, e, dopo una brevissima introduzione orchestrale in sordina, il pianoforte entra su un disegno a solo del tutto inusitato (una melodia interna si insinua tra accordi e ottave, da eseguirsi rigorosamente staccati e senza arpeggiare) che richiede totale indipendenza di tocco e crea un'atmosfera di grande sospensione, prima di arrivare a uno sviluppo più tradizionalmente lirico (e di sonorità “francesizzante”) con un ruolo sempre più tematico dell'orchestra, contrappuntato da raffinati “carillon” pianistici. Più convenzionale, nella sua esuberanza sonora, l'Allegro animato conclusivo, in sol maggiore, in forma libera di rondò-sonata. Pagina di grandissimo (e, se vogliamo, più esteriore) virtuosismo solistico, ma allo stesso tempo tematicamente coesa e di efficacissima resa, conclude luminosamente questo complesso lavoro. I restanti brani si inseriscono, nella loro natura di trascrizioni, in quell'atteggiamento di rilettura/riflessione del passato che, per molti degli autori italiani attivi tra Otto e Novecento, accompagnò parte del cammino di riappropriazione della tradizione strumentale. Ottorino Respighi inaugura il suo catalogo di composizioni “arcaizzanti” pubblicando tre serie di Antiche arie e danze per liuto (1917, 1923, 1931), trascrizione per orchestra (o per soli archi, nella terza serie) da originali italiani del XVI e XVII secolo. Al 1918 risale un'ulteriore raccolta, liberamente trascritta per pianoforte, che unisce tre danze della prima serie (il Balletto detto “il Conte Orlando” del genovese Simone Molinaro, la Gagliarda di Vincenzo Galilei, una Villanella della fine del Cinquecento), con tre della terza (un'Italiana e una cullante Siciliana tardocinquecentesche, una Passacaglia tratta dai Capricci armonici di Lodovico Roncalli, 1692) della quale, evidentemente, costituisce la prima stesura. Intensa fu l'attività del Martucci trascrittore: assiduo frequentatore del repertorio clavicembalistico nei suoi récital pianistici, il compositore partenopeo lascia un interessante catalogo di trascrizioni, specie per pianoforte, del repertorio più svariato, testimoniando interessi e competenze assai vari. Vi compaiono i maggiori compositori barocchi, classici, perfino romantici (le trascrizioni per violoncello da originali pianistici di Schumann, Schubert e Mendelssohn). Un posto a sé è riservato ai compositori della grande tradizione strumentale italiana (Corelli e Martini, ma anche Scarlatti e Boccherini) e della tragédie lyrique francese (Lully e Rameau in Dieci danze antiche, 1893). La fortunata Mélodie de Gluck, trascrizione di Giovanni Sgambati dalla Danza degli spiriti beati dell'Orfeo ed Euridice del compositore tedesco, subito entrata nel repertorio di virtuosi quali Busoni e Rachmaninoff, conclude il programma. Silvia Paparelli |
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