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NUOVE INCISIONI, DVD
Il Galateo in Bosco
di Mirco De Stefani CRR9404 1994 Descrizione: Le onde minime del piatto sospeso schiumano sul rigo, sospese appena tra il pianissimo e il piano. Da un imo tiepido e ctonio si affacciano, imitando l’eco di un canone antico, il borboglio cereo dei violoncelli, le morbide abrasioni delle viole, il graffio chiaro dei violini. Il pizzicato mormorante degli archi si gonfia in un pulviscolo di grani che va a frangersi contro i groppi di macchie e bolle soffiate dalla marimba. Il corno inglese stilla la sua perorazione di gocce, soffi, punti, condensati in fili sul vetro rugoso dei versi. “Traessi dalla terra io in mille grifi / minimi e in unghie birbe le ife e i fili” – dice, lontano, il recitante. Non è musica d’uso, questa di Mirco De Stefani, o musica “poetica” o, per ventura, musica “di scena”. E’ invece suono che osa intonare, sul campo, i cammini eternati del sonetto. Di un’ “unghia”, anzi, dell’ipertrofico “Ipersonetto” che occupa dichiaratamente, del Galateo in Bosco zanzottiano, il “centro del libro”. Ed è musica costretta, lo voglia o no, a giocarsi la sua “partita a tenia”, sul tavolo dell’ Osteria della Malanotte, con l’”intonatio” madrigalistica della poesia. Ma la rappresentazione degli affetti, questa volta, riesce a trarsi con gran forza dalle nobili, e mai corrose, concrezioni storiche del madrigale. Altro non è l’indirizzo ultimo dell’intonazione madrigalistica, infatti, se non quello di amplificare ed enfatizzare, commuovendo e stupendo, l’espressione del verso. La “rappresentazione musicale” del Galateo in Bosco, invece, contrariamente ad alcuni radi incontri coevi tra musica e poesia, tende ad altri approdi. Guarda da lontano, ad esempio, le ferite aperte da Berio nel corpo ludico della poesia di Sanguineti o il “mood” liederistico di certi altri “esperimenti”. Si rinvengono, è vero, nella meticolosa scrittura di queste pagine, episodi imitativi, sezioni di piana e impulsiva omoritmia, cadenze “frottolistiche” oppure graffiti pittorici di palese respiro figurale (i “madrigalismi”, appunto). Ma altro è il meccanismo delle rappresentazione. Lo strumentale e il vocale, trattati secondo un camerismo intriso di tensioni “teatrali” che ricorda la lezione schoemberghiana del Pierrot lunaire, hanno dita forti e prensili. Afferrano con durezza i lembi del verso e scavano. Scavano fino a raggiungere i sentieri carsici del Galateo, i bollori (i codici) che covano sotto la cenere della terra (della lingua) su cui cresce in “bosco” della poesia. E da questo imo estraggono, quasi ciecamente, la linfa vitale di cui il Galateo, pur nella sua letterarietà, si nutre: la pervasiva oralità, l’humus dialettale del filò su cui concresce la scrittura. Ma calare la rete nel fiume carsico dell’oralità (del dialetto, spesso) significa anche estrarre dalla poesia, come accadeva nella pratica antica del madrigale rappresentativo, la sua latente, o sofferente, narratività. La rappresentazione musicale, dunque, in questo caso, dice, della poesia, qualche cosa che la poesia non sa, non conosce, che conserva soltanto, forse, nel proprio “inconscio”: la sua impulsiva tensione fabulatoria, fàtica, narrante. La scrittura concertante di De Stefani, in cui la dulcedo ipnotica del corno inglese si insinua nella subtilitas della chitarra (“Galatei, sparsi enunciati, dulcedini” dice il primo verso dell’ “Ipersonetto”, non a caso intonato da due strumenti primi della rappresentazione) indugia quindi in una brulicante analisi del “profondo” che la lingua stessa custodisce. Riesce misteriosamente ad accendere nell’”in sé basso e sprofondato”, come ha detto una volta Zanzotto, che bolle nel bosco-lingua, quel qualcosa che “butta su, che rampolla in continuazione” e che rivela la vertiginosa frammentarietà, il “tremolio” dei codici. E questo qualcosa, si rivela essere, con un “coup de théâtre” che la musica si limita a dire, la dimensione epica, “popolare” della lingua poetica manifestata dal “galateo”. La rappresentazione musicale, insomma, per usare un’immagine logica di cui è proprietario Lauro Galzigna, si muove dentro la poesia come la poesia si muove dentro la lingua, seguendo cioè quella “geometria dell’irregolare”, vicina alla geometria frattale, in cui ogni espressione algebrica contiene in se stessa tutto il procedimento della sua derivazione. La musica rivela, come una sonda calata nell’inconscio della lingua, che la poesia, che questa poesia deriva da quella rappresentazione epica del paesaggio, del suo degrado e del suo istintuale rinascere, in cui il Galateo in Bosco ha infitte, come radici entro la roccia, le sue sofferenti ragioni. L’artiglio della musica che graffia la corteccia della lingua zanzottiana non ha, però, unghie rapaci. Non ha intenzione alcuna di rodere, dissolvere o smangiare, il fegato dei versi. E’ anzi l’artiglio, intriso di pietas, di una affettuosa estroversione farmacologia che assume una sorta di positiva tinta medicamentale. La rappresentazione mette ordinatamente in scena il teatrino paesano di “Dolcezza. Carezza”, l’arcadica implosione dialettale di “Chive, chive a l’ombria”, le abbaglianti ustioni di “DIFFRAZIONI. ERITEMI”, ma cancella dall’indice dei “componimenti scelti” proprio lo spaesamento di “Gnessulógo”, il nonluogo (rovescio speculare del dovunque) in cui il collasso della lingua appare incurabile. E balza avanti, la rappresentazione, ad afferrare con l’unghia sapiente del guaritore le forme vetrose, essenziali, temporaneamente pacificate dell’Ipersonetto. Il luogo, cioè, dove la lingua si fa non solo metafora o sedimento del paesaggio, ma medicina di se stessa, e la musica, secondo il suo proprio ricettario, “pharmakon” della poesia, terapeusi preventiva (e infinita?) del suo “status” perennemente collassante. Dietro la pagina inchiostrata di versi e di note appaiono così, come in filigrana, i profili “biografici” che apparentano Zanzotto e De Stefani, paziente il poeta, guaritore il musicista, ed entrambi “luogo, albero, casa, ombra” del medesimo paesaggio, del medesimo continuano “nido natale”. Guido Barbieri |