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Giovedì 29 marzo 2012 -
Può stupire che tra le tante facce di Nanni Balestrini quella meno
esibita sia l'artista concettuale di talento che ha fatto mostre
importanti e che Documenta - la manifestazione artistica che si tiene
in giugno - ha invitato a Kassel per presentare un film. Parla in
maniera sommessa, Balestrini. E a volte si ha l'impressione che in lui
agisce una certa reticenza. Scrittore incline allo sperimentalismo.
Grande organizzatore culturale. Oggi dirige Alfabeta2, mentre l'editore Bompiani ha da poco pubblicato una nuova edizione antologica
del primo Alfabeta. «La rivista di allora durò una decina di anni. Il
primo numero uscì nel 1979. Eravamo un gruppo di intellettuali di
provenienza disparata. C'erano Umberto Eco, Maria Corti, Mario
Spinella, Pier Aldo Rovatti, Antonio Porta, Francesco Leonetti.
Volevamo riprendere il discorso della cultura che durante gli anni
Settanta era sommerso o frantumato», ricorda Balestrini. Non fu un
decennio facile per la cultura. «C'erano molte spinte emotive. Oltre
che politiche. Io organizzai a Milano l'iniziativa di Area, nella quale
avevo raccolto un certo numero di riviste - tra cui Re Nudo, Erba
Voglio, Aut Aut - e piccoli editori per pubblicare dei libri. L'idea
era di rafforzare un fronte editoriale che altrimenti sarebbe rimasto
invisibile. Pubblicammo tra il '76 e il '77 circa 130 libri tra cui
Eco, Arbasino, Fachinelli. Poi chiudemmo a causa dell'inasprirsi della
repressione». La repressione, che culminò con il 7 aprile 1979, fu la
risposta alla lotta armata, al ribellismo, ai morti che cominciarono a
insanguinare le strade. «C'era un disegno repressivo più ampio,
cominciato con la strage di piazza Fontana a Milano nel 1969. Ma lo
spartiacque vero avvenne nel 1972 con la morte di Giangiacomo
Feltrinelli. Ho cercato di raccontare tutto questo nel libro L'editore
». Quando dice "spartiacque" che cosa intende? «Che dal Sessantotto
fino alla morte di Feltrinelli ci fu una grande partecipazione
positiva del movimento. Poi arrivarono le degenerazioni e con esse l'arretramento del movimento, il terrorismo e la repressione che
coinvolse tutto e tutti, anche i luoghi di cultura». Anche lei non ne
uscì indenne. «Evitai l'arresto rifugiandomi in Francia, dove rimasi
per cinque anni. E poi venni completamente assolto da quelle accuse».
Di cosa l'accusavano? «A me, come per altri intellettuali, l'accusa
fu di essere responsabile diretto di tutto quello che di violento si
era scatenato fino a quel momento e comprendeva anche l'assassinio di
Aldo Moro. La verità è che la sola cosa che trovarono era il mio nome
nell'agenda telefonica di Toni Negri, di cui ero amico». Lei ha
militato in Potere Operaio. «Sì e poi per un po' nell'Autonomia. Ma
vedevo come un progetto fallimentare la contrapposizione allo Stato
attraverso la lotta armata». Capisco. Ma non le sembra che tutto l'arcipelago della sinistra extraparlamentare abbia brillato per miopia e
velleità, favorendo una deriva autoritaria? Ma dotata di un'immensa
energia. In fondo la storia della casa editrice, fino a che rimase in
vita, si è identificata con la sua vicenda personale. Sapeva infondere
alle persone che lo circondavano una determinazione e un entusiasmo
rari. Era un uomo culturalmente aperto. Ricordo che a un certo punto
gli parlai del Gruppo 63, chiedendogli di appoggiarci e lui lo fece ben
sapendo che da quell'avventura non sarebbe venuto fuori nessun
successo editoriale. Gli piaceva che le cose e le situazioni si
muovessero». Non ha l'impressione che a un certo punto, per le sue
posizioni politiche, perse il contatto con la realtà? «Visto adesso può
sembrare. Ma lui entrò nella clandestinità perché temeva che il colpo
di stato in Italia fosse imminente. E prese una strada senza ritorno».
Cosa pensa della sua morte? Ancora oggi non tutti i dubbi sono stati
dissipati. «Personalmente non vedo nessun mistero. Fu il frutto della
sua «Ufficialmente gli anni Settanta sono stati gli anni di piombo. Ma
credo che non si possa ridurre quella stagione soltanto a questo
aspetto». Lei, come ha ricordato, pubblica nel 1972 il libro su
Feltrinelli, di cui ricorre il quarantennale della morte. Perché sentì
il bisogno di parlarne in modo così diffuso? «Ero stato amico di
Giangiacomo, oltre che dipendente. Entrai a lavorare in casa editrice
all'inizio degli anni Sessanta e Feltrinelli mi apparve fin dall'inizio una persoimperizia. Feltrinelli era molto miope e sospetto che,
sbagliando a posizionare il timer della bomba che avrebbe dovuto far
saltare il traliccio, anticipò l'esplosione». Una bomba di tutt'altro
tipo fu quella che voi innescaste come Gruppo 63. «Rompemmo con l'establishment culturale italiano». Cioè con la cultura letteraria
portata avanti da Bassani e Cassola. «Li definimmo le Liale della
letteratura». Tra l' altro Bassani ricopriva un posto di rilievo
proprio alla Feltrinelli. «Dirigeva due collane: una di narrativa
italiana e l'altra straniera. E a un certo punto ci fu uno scontro di
generazione». Tra chi? «Poco prima di me, in casa editrice erano
arrivati Valerio Riva e Nanni Filippini e avevano messo a punto una
collana, Le Comete, che si contrapponeva a quella di Bassani. Alla fine
Bassani, che aveva il suo ufficio a Roma, andò via e io presi il suo
posto. Era il 1962». E l'anno dopo nacque il Gruppo 63. «Prima però c'era stata la rivista Il Verri ». Che dirigeva Luciano Anceschi. «Fu il
mio professore al liceo. A un certo punto mi chiese di aiutarlo nella
redazione della rivista. Alla quale collaboravano Sanguineti, Barilli,
Guglielmi, insomma parte di quel nucleo che poi darà vita al Gruppo
63». Gli altri erano Arbasino, Giuliani, Pagliarani. Eravate
intellettuali che agivano in ordine sparso. Cosa vi teneva assieme? «A
parte l'insofferenza verso un certo modo di scrivere, fu la musica a
rivelarsi molto più interessante della letteratura e della pittura. Non
è un caso che il primo convegno lo tenemmo a Palermo, dove tutti gli
anni il barone Agnello, personaggio straordinario, organizzava un
festival di musica nel quale passarono tutti i grandi da Stockhausen a
Boulez. Ricordo che un giorno a pranzo con il barone c'erano Luigi
Nono e il poeta Ungaretti. E Nono cominciò a parlarci dell' esistenza in
Germania del Gruppo 47 e sapendo che io, come lui, ero interessato ai
linguaggi della neoavanguardia, ci suggerì di pensare a qualcosa di
analogo. Il barone Agnello si entusiasmò e disse che avrebbe volentieri
tenuto a battesimo la nascita del Gruppo 63». Che però non durò a
lungo. «In tutto cinque anni. E altrettanti convegni. Qualche romanzo e
una voglia di liberare il paese dal bello scrivere». A proposito di
romanzi, i suoi mostrano un'attenzione forte all'esperienza sociale.
«Cominciamo col dire che non sono un narratore che inventa personaggi e
storie. Amo raccontare le situazioni collettive». Non ha
immaginazione? «Non ce l'ho nei contenuti, per cui la rivolgo alle
forme. Feci qualcosa di sperimentale già con Tristano, un romanzo che
uscì nel 1964, fatto con il collage di frasi prese altrove. Oggi lo
chiamerebbero remix. Prima ancora, nel 1961, elaborai una poesia con il
calcolatore elettronico. Ero attratto dall'attività combinatoria sia
della macchina che della poesia». Poi ha abolito la punteggiatura.
«Beh, questo si verificò con Sandokan. Mi importava restituire l'oralità del linguaggio, segnalare che c'era una voce narrante. E
abolendo la punteggiatura nella sintassi creavo una specie di flusso
continuo, un finto parlato». Sandokan era un romanzo sulla camorra.
Come le venne in mente di occuparsene? «Ero stato in una piccola
libreria di Aversa a presentare non ricordo più quale libro. E un
giovanotto, la sera in pizzeria, mi parlò dei casalesi. Un gruppo
criminale di cui agli inizi degli anni Novanta nessuno sapeva niente.
Che prima aveva scalzato Cutolo e poi aveva preso tutto il potere
della camorra. Mi parve una storia straordinaria». Cosa pensa di
Gomorra? «Il libro, soprattutto nella seconda parte, è un reportage
bellissimo. Ma non si discosta molto dal mio. Devo dire che mentre
scrivevo Saviano mi aiutò con delle informazioni. Ma Sandokan, che poi
era il nome del capo dei casalesi, non era una vera storia collettiva
come quelle raccontate negli anni Settanta con Vogliamo tutto e Gli
invisibili». In qualche modo una storia collettiva la raccontò anche
con I furiosi, uno dei primi romanzi sul tifo calcistico. «E pensare
che a me del calcio non piaceva nulla. Nei primi anni Novanta
frequentavo a Milano un centro sociale dove, in uno stanzone adiacente,
si riunivano le brigate rossonere. Rimasi sbalordito dai loro racconti
in cui si mescolavano le trasferte avventurose, i rituali, i pestaggi,
il linguaggio mirabolante. Mi portarono a vedere una partita. E fu
un'esperienza terribile». Cosa accadde? «Ero in curva con tutti in
piedi che saltavano. Il capo della brigata, voltando le spalle al
campo, dirigeva il coro dei tifosi con due tamburi ai fianchi. Sono
andato via prima della ripresa del gioco. Non reggevo la tensione. Però
li ho amati e ho sentito che c'era in loro una grande e autentica
passione». Li ha amati come li amerebbe un intellettuale cui non frega
niente del calcio. «Ma anche per loro il calcio era un pretesto per
stare assieme. I giornali sportivi mi attaccarono, dissero che
difendendo quei disgraziati avallavo la loro sete di violenza. Io
invece penso che ci sia un desiderio collettivo che spinge la gente a
unirsi». Si può stare insieme anche per far male agli altri. «Gli stadi
non sono un luogo di eccidi. E il calcio è una finta guerra nella
quale due tifoserie fanno da coro». C' è in lei come un bisogno di
approvazione del vitalismo sociale. Anche nell'ultimo libro apparso,
come del resto tutte le sue ristampe, da Derive Approdi, dedicato alla
Milano di Pisapia, si nota questo slancio verso il collettivo. «Ero lì
quando Pisapia ha vinto e mi sembrava che con quella vittoria si
chiudesse il ciclo del berlusconismo, di cui avevo raccontato nel 1994
la sua prima affermazione. Quanto al vitalismo ho l'impressione che la
nostra storia sia stata segnata in maniera negativa dal capitalismo.
Cosa deve fare un intellettuale quando si accorge delle enormi
ingiustizie che esplodono nel nostro mondo? Oggi tutti parlano di
crescita. Ma io mi domando: può il capitalismo continuare a crescere
all'infinito?». Proprio nel film che porterà a Documenta Kassel si
parlerà di capitalismo. «Il capitalismo sta distruggendo il mondo. E ho
immaginato di raccontare questa distruzione con un centinaio di
frammenti visivi: ci sono parti di un vecchio serial televisivo,
Dallas, immagini della Borsa di Wall Street, le catastrofi provocate
dall'uomo e la fame nel mondo». Lei non ha mai dimenticato gli anni
Settanta. «Mi rendo conto di avere avuto la fortuna di vivere due per
me meravigliose stagioni, quella della neoavanguardia letteraria degli
anni '60 e quella del movimento degli anni '70, stagioni belle,
giuste, entusiasmanti, che mi permettono di sopportare senza
rassegnazione tutto lo squallore successivo». Antonio Gnoli
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