INTERVISTE



Intervista a Sonig Tchakerian di Stefano Bisacchi
Marzo 2022 - Il 25 Aprile avrà inizio la XXXI edizione delle Settimane Musicali al Teatro Olimpico di Vicenza, uno dei festival più stimolanti del panorama italiano per qualità delle proposte e quantità di sollecitazioni di idee che riesce a suscitare nel suo pubblico. Senza considerare il legame unico che crea, grazie al luogo privilegiato in cui ha sede – il teatro palladiano -, fra codici espressivi e che si riflette nella variegata programmazione di quest’anno. 25 Aprile: data carica di significati per la storia italiana e che in quest’ anno drammatico richiama tutti noi a nuove e profonde riflessioni che travalicano i confini e il tempo storico di una nazione e a cui lo stesso evocativo titolo pasoliniano di questa edizione sembra invitarci: Prima il Silenzio, poi il suono, o la parola. Ne abbiamo discusso con la violinista Sonig Tchakerian, che dal 2019 è direttrice artistica della manifestazione. Parla con l’eleganza, la grazia e la leggera gravità del suo strumento, attendendo paziente le mie domande e dandomi il tempo di completare i miei appunti, sorseggiando nel frattempo una tisana, in silenzio. Silenzio:

il silenzio è un momento importante della musica. Quale valore ha, secondo lei, il silenzio nella società e nella vita d’oggi? La frase che abbiamo scelto quest’anno è di Pier Paolo Pasolini perché, oltre ad essere un omaggio in occasione del centenario, può riassumere in modo egregio la formula del festival. Il silenzio è una parte fondamentale della nostra esistenza. È necessario. Per me, in quanto persona, lo è quanto il silenzio prima del suono, appunto, prima di cominciare a suonare, ma, anche, dopo l’esecuzione, prima di un applauso. Fa parte di un mistero che non appartiene al mondo delle parole, non necessita di spiegazioni ed è quindi molto privato perché si avvicina all’anima. È un silenzio di riflessione, una ricerca del ritrovarsi, importante nella nostra vita.
... poi il suono, o la parola: nel teatro la diatriba è storicamente stata fra musica e parole. Quale peso ha il suono fra il mondo del silenzio e quelle delle parole? Il suono come comunicazione nasce prima della parola, nella storia dell’uomo. È un messaggio che trasmette e comunica senza bisogno della parola. Come le parole, tuttavia, il suono va usato bene, perché oggi si fa un uso leggero delle parole, che invece hanno un peso. Sono dei macigni. Anche la musica diventa un macigno, lascia un segno. Sono tre momenti densi di vita, di esperienza, ciascuno nel silenzio, nel suono, nella parola si porta un bagaglio enorme e, a volte, non ci rendiamo conto di quanto siano significativi verso gli altri. È necessaria una buona educazione generale e, per noi musicisti, è essenziale avere rispetto della musica, di chi ascolta, dell’autore; è un meccanismo di condivisione che crea aspettative e conseguenze.
Non possiamo non pensare a quello che sta accadendo in questo preciso momento: alcune voci sono messe a tacere, ad altre si chiede di parlare… davvero restano solo il suono e la musica? Quale peso, dunque ha il silenzio e quale la musica? È una domanda complessa a cui rispondere, che implica tanti aspetti e non credo – si schermisce quasi – di essere preparata su tutti, per considerarli nel dovuto modo. I miei nonni sono profughi di genocidio e io faccio fatica a chiudere, a creare delle frontiere, dei blocchi. Nemmeno come musicista vorrei crearli. I musicisti sono persone che dedicano la vita a un’attività che, fra tutte, è la più internazionale: hanno suonato attraversando nazioni, confini, suonato con musicisti di altre religioni. Ancora 100 anni fa, quando nessuno viaggiava, i musicisti lo facevano. Bloccarli adesso non ha senso e creare queste discriminazioni fra giovani fa star male. La musica unisce. Poi, ciascuno ha le sue idee politiche, il male esiste, ma bisogna creare pace, non separare. Come si possono escludere dei musicisti talentuosi, non invitarli a suonare … Si interrompe. Sorseggia la tisana, silenziosa. Si fa fatica a pensare di ricreare questi vecchi muri, ma il discorso è complesso. Anche la musica è politica. Noi musicisti dobbiamo vivere insieme e trovare un accordo fra mondi e culture diverse. Forse – riflettiamo – è questa l’essenza di ciò che Aristotele intendeva quando definì l’uomo un animale politico: il bisogno di vivere insieme richiede necessariamente un accordo. Il musicista, del resto, è il simbolo della libertà, è sempre stato al di sopra delle parti.
C’è un silenzio che si sta imponendo in modo nuovo nell’epoca moderna: la cancel culture. Tendenza al silenzio o tentativo di trovare parole nuove? Sono temi su cui ho molto riflettuto. La schiavitù è un obbrobrio, forse ancora non è finita, ma fa parte della storia come ne fanno parte figure negative. Se una statua diventa un simbolo negativo va tolta, ma se è un simbolo storico, fa parte di una determinata epoca, perché distruggerla? Conserviamo e curiamo i reperti dell’antica Roma: eppure era un impero che ha causato morti. Dovremmo dunque cancellare tutta la storia? Forse dovrebbe essere tutto calato in un processo culturale di formazione dei giovani. Ci sono fasi che hanno causato numerosi sacrifici, anche ai giovani. Fanno parte di un racconto della storia che non si può cancellare; al contrario, però, possono essere utili per stimolare nuove riflessioni. (Proprio nei giorni seguenti a questa intervista, il New York Times, che in principio sostenne con suoi interventi la cancel culture, ne ha esplicitamente preso le distanze, parlandone come di una negazione della libertà di parola).
Non pochi degli aspetti di cui abbiamo parlato si riflettono nel ricco programma del Festival. Vogliamo soffermarci per un momento su quelli che prendono in considerazione il rapporto suono e voce: penso innanzitutto a Lucrezia romana, il femminicidio nell’arte. Un tema importante. Ce ne vuole parlare? Il femminicidio esiste da sempre, è descritto in molti quadri. Il concerto, in programma nella Matinée del 29 maggio, a Palazzo Chiericati, che vedrà protagonisti Giulia Bolcato, Federico Toffano e Alberto Maron, sarà accompagnato da una storica dell’arte, Sara Danese, che illustrerà i quadri del Padovanino. Il femminicidio è una questione attualissima, non risolta perché nei secoli si è perpetuato: forse non se parla abbastanza. In questa occasione Delilah Gutman proporrà in prima mondiale un brano scritto per l’occasione su questo tema, La tua voce nella mia e che sarà incluso in un programma con musiche di una fra le principali compositrici nella storia, Barbara Strozzi, e di Händel.
Non manca un appuntamento, il 3 giugno, dedicato a Pasolini: fra le sue liriche dedicate alla grande Maria Callas due versi mi vengono in mente che ci riportano al rapporto silenzio-suono-parola: “le parole si fanno bugiarde” – “Per me c’è un vuoto nel cosmo – e da là tu canti”. Tutti noi siamo cresciuti con Pasolini – ultimamente mi hanno sorpreso i suoi scritti bachiani. Per restare a noi violinisti, ha scritto parecchio sul preludio della Terza Partita, sulla Siciliana, scendendo nel particolare delle composizioni, e ha usato Bach in tanti suoi film. Noi tutti musicisti non possiamo fare a meno di Bach: quindi la serata è essenziale. Con me suonerà Giovanni Sollima, ed eseguiremo la Sarabanda dalla Suite in do minore per violoncello solo BW 1011 e la Ciaccona dalla Partita in re minore per violino solo BWV 1004, in un una versione per violino con violoncello di Victor Derevianko. Poi un’altra prima esecuzione assoluta, un brano che Tigran Mansurian ha scritto per me. Ha una monodia che sia basa su antichi canti armeni e fa riferimento a qualcosa di sacro. Il titolo della serata, del resto, deriva da Pasolini, Qualcosa di Sacro. Quello che ci unisce anche nella musica di Bach.
Poi la narratrice per eccellenza: Shéhérazade, cantata da Korsakov, con la voce narrante di Paola Pitagora, il 10 giugno. Questo concerto, affidato a Marco Sollini e Salvatore Barbatano al pianoforte, è un altro appuntamento stimolante, perché presenta una rara versione originale dell’opera predisposta dallo stesso Rimskij-Korsakov che ci porta in una dimensione sonora diversa interessantissima, molto suggestiva con parti evocative, sognanti. I due pianisti saranno accompagnati dalla voce di Paola Pitagora che leggerà i brani che hanno ispirato la composizione.
Non possiamo introdurre qui tutti i concerti, che vedranno alternarsi, oltre agli artisti già ricordati, Kostanti Tashko, Giuseppe Gibboni con l’Orchestra di Padova e del Veneto, Elia Cecino, Gabriele Melone e Sofia Adinolfi, Enrico Dindo con Pietro De Maria e ancora lei stessa, Davide Ranaldi e, infine Roberto Loreggian che eseguirà al clavicembalo le Variazioni Goldberg; vuole quindi dirci qualcosa dell’XI Premio Brunelli a cui è proprio affidato l’avvio del Festival? Lamberto Brunelli è stato un ingegnere che suonava il pianoforte e ha sempre sostenuto il Festival; si è quindi deciso di organizzare il concorso in sua memoria. Sono stati undici anni in crescendo, perché i ragazzi sono sempre più bravi. Il livello artistico è sempre più alto e ho deciso di trasformarlo in un concorso in due parti con la finale con orchestra, cosa che pochi concorsi fanno: al Teatro Olimpico ciò vuol dire accostare la bellezza alla bravura. Bisogna osare. I concerti della finale (Mozart, Beethoven, Chopin) sono nella versione per archi soli che rientra nella visione di Hausmusik ottocentesca, e nella visione di Brunelli. Un appuntamento imprescindibile delle Settimane, del resto, è il MuVi (22 maggio) in cui si suona dal mattino a sera nei palazzi della città. Quest’anno ho invitato i cosiddetti amatori di MiAmOr (Milano Amateurs & Orchestra): alla Loggia del Capitaniato ci saranno due pianoforti gran coda suonati da una poetessa, un chirurgo plastico, un imprenditore, tante persone che nella vita professionale fanno altro. Nel mondo degli appassionati ci sono amatori che sono veri musicisti e voglio lanciare un segnale con questo appuntamento: la gente deve capire quanto si sta bene quando si suona insieme e non solo quando si ascolta. Avremo Jazz, balli; è uno spazio in cui ciascuno regala alla città ciò a cui più tiene come musicista: un libro, una lezione, un ballo in cui la musica viene vissuta nelle sue varie forme. Matteo Dal Toso è l’unico pianista “vero”, per così dire, fra gente fra la più disparata, che suona un repertorio importante, studia, fa musica.
Parliamo un po’ anche di lei, dunque: una lunga carriera partita dall’Armenia. Fra i colleghi e colleghe che ha incontrato qual è il silenzio, il suono o la parola che si porta dietro? Sono stata un’allieva molto fortunata perché ho incontrato tutti maestri straordinari, con caratteristiche diverse, ma che mi hanno insegnato l’onestà intellettuale come musicista e, come persona, nella vita. Tutti sono stati molto generosi e mai gelosi. Con Accardo ho fatto il percorso più lungo e mi considero ancora sua allieva: lui ha una capacità di sintesi impressionante. Le loro parole sono sempre state molto preziose e tutte dette con competenza stilista e tecnica ed è raro trovarne così competenti, che vogliono condividere la loro esperienza con i giovani.
Lo scorso novembre si è ricordato a Trieste Franco Gulli: un suo ricordo? Giovanni Guglielmo mi ha formato; con Gulli ho fatto dei corsi di perfezionamento e altri, per molti anni, con Salvatore Accardo. Poi ho avuto incontri con Nathan Milstein. Gulli era una persona di una classe, eleganza e nobiltà importanti, che mi ha aperto gli occhi su tante cose. Era un violinista italiano nel mondo, con un suono e una tecnica che ne hanno fatto un grandissimo violinista, oltre che un didatta serio e appassionato. Mi ha insegnato molto sulla cura delle articolazioni, la cura del testo, il vibrato.
Parliamo della sua esperienza all’Accademia Nazionale di Santa Cecilia a Roma. Sono 13 anni che insegno a Santa Cecilia. Là si suona. Il tempo è dedicato al suono, si lavora con ritmi serrati perché il livello è alto. È un ambiente di ragazzi molto motivati, appassionati, bravi, che stanno bene con la musica e investono su questo aspetto perché ci credono. Nella mia classe ci sono 10-12 allievi. Non posso che stimolare i giovani ad avvicinarci e crederci. Ci sono, alla fine, le possibilità di lavoro; ciò che posso però dire è che in Italia manca un livello base di cultura musicale, in cui gli amatori possano suonare perché si divertono; non base, tuttavia, nel senso che renda basico il livello del suonare; ma che metta tutti nelle condizioni di suonare divertendosi. Roma in questo è un’oasi felice.
Torniamo ai suoni, ai suoi suoni: quali sono i suoi prossimi progetti come violinista? Adesso mi dedico molto alla musica armena. Questo brano che sto aspettando è di una persona pazzesca e in questo momento sono rivolta a lui. È il silenzio prima della musica. Oggi, alla pace dedicherebbe una parola, un suono o un silenzio?
Riprende la tazza di tisana, che nel frattempo si sarà forse raffreddata. L’accosta alle labbra e la ripone subito sulla scrivania. Gli occhi vagano per la stanza, oltre lo schermo del computer, che è una finestra attraverso cui ci fissiamo. Non parla. Azzardo, quasi percependo quel silenzio come una pausa in una partitura musicale (le pause, i silenzi, i suoni le parole hanno un peso): è questa, forse, se la sua risposta? Un silenzio, sì. Un silenzio, credo; perché le parole sono riduttive. Ho sempre amato i poeti che con tre parole descrivono il mondo. Non ne sono capace… Ma un silenzio riconoscente di auspicio.

Forse Sonig Tchakerian, qui si è sbagliata e si è scoperta poetessa. Ha trovato la sintesi fra musica e parole, come solo i poeti sanno fare (per me c’è un vuoto nel cosmo – e di là tu canti). Perfetta per descrivere i giorni che viviamo.

di Stefano Bisacchi - Copyright © 2022 per gentile concessione al portale CIDIM vietata la riproduzione
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