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INTERVISTE
25 marzo 20014: Dario Manzini, compositore finalista al Toru Takemitsu di Tokyo
In vista del concerto finale, il compositore ci propone alcune riflessioni sul suo comporre. Che tipo di pubblico ascolta la tua musica? Ho scritto musica cameristica e sinfonica, colonne sonore, musica per coreografie e musica per ragazzi. Il mio linguaggio varia di occasione in occasione, non nel senso che utilizzo diversi “stili”, cosa che trovo in generale di cattivo gusto, ma nel senso che lascio affiorare differenti aspetti del mio linguaggio personale a seconda del pubblico e della circostanza. Al centro della mia musica vi è la necessità di portare alla luce tracce dei mondi acustici che immagino nella mia testa. Parlo di tracce perché quasi mai questi mondi si materializzano identici a quando li avevo cominciati a pensare. Cerco tuttavia di rendere queste tracce più comprensibili possibile, ed è proprio in questo processo che il linguaggio varia: nel capire come queste tracce possano emergere più chiaramente in relazione a un determinato tipo di ascoltatore. Che cosa vuol dire per te scrivere musica classica? Per quanto mi riguarda scrivere musica significa prima di tutto abbracciare l’idea che il processo creativo di un brano deve essere vissuto come un dialogo a più riprese: in primo luogo con il committente, per delineare le caratteristiche dell’evento in cui la musica verrà suonata e il tipo di organico che questa musica necessiterà; poi con gli strumentisti che suoneranno la partitura, con i quali si esplorano le possibilità musicali della partitura stessa, i timbri, le tecniche in uso, e in particolare si lavora su un’esecuzione che possa risultare chiara e allo stesso tempo intuitiva; in fine con il pubblico che ascolterà la musica, grazie al quale la musica si concretizza. Lavorare per un committente significa scendere spesso a compromessi? È parte del lavoro del compositore usare le necessità di un committente per orientarsi nel mezzo della creazione di un brano, piuttosto che vivere queste necessità come una serie di limitazioni che impongono di scendere a compromessi. Personalmente non mi sono mai sentito limitato dalle necessità di un committente, anzi, ho sempre vissuto la diversità di intenti come una possibilità per ampliare i confini della mia musicalità. Quali sono gli organici con cui hai lavorato finora? E quali preferisci? Ho scritto musica per molte formazioni, dal solista all’orchestra sinfonica. Non ho un organico preferito, sebbene sia molto attratto dalla musica da camera, in particolare dal suo aspetto intimo e dalla sua versatilità. Ho collaborato spesso con registi e coreografi utilizzando formazioni cameristiche, che si sono rivelate facilmente adattabili a diverse situazioni. Naturalmente la musica sinfonica permette un’approfondita ricerca acustica e un’immensa varietà timbrica. Tuttavia scrivere per orchestra determina un rapporto molto diverso con il pubblico, che al momento sento più vicino utilizzando un organico cameristico. Vorrei in futuro sperimentare più approfonditamente con l’orchestra sinfonica, proprio per coniare un linguaggio che possa includere sia le sonorità intime della musica cameristica che il suono della grande orchestra. Ringraziamo Giovanni Dario Manzini per averci proposto la sua visione della musica. Anna Rita Pappalardo, Giusy Colello, Caterina Santi |